La morfologia del territorio condiziona lo sviluppo urbanistico di Siena

Nel saggio “Dei recenti studi geologici e paleontologici sul territorio senese” del 1894, il Simonelli scriveva: ” Le condizioni preparate dagli avvenimenti geologici sono, per le società umane, determinatrici efficacissime di attitudini e vicende; e come si legano alla natura del suolo i progressi delle industrie e perfino le più alte manifestazioni del sentimento estetico, così, più di una volta, parte dal suolo la spinta fatale alle migrazioni, ai rivolgimenti sociali, ai conflitti dei popoli”. Come dire: la storia della civiltà è scritta per intero nella storia delle rocce.
E’ proprio partendo da queste considerazioni che ci accingiamo a indagare lo sviluppo urbanistico di Siena, la cui storia politica, economica e sociale è stata fin dall’antichità condizionata dalla sua posizione geografica. Nodo viario di estrema importanza a partire già dalla metà del VI secolo , la città fu però fortemente penalizzata dalla mancanza di risorse idriche, che ne limitò in maniera determinante le attività economiche.
“Aqua unum ex quattuor est elementis sine quibus viveve nullus potest”. La prosperità di una civiltà, di un popolo, è strettamente legata alla possibilità di attingere ad abbondanti riserve idriche. La Storia ce ne riporta molteplici esempi. Molte delle grandi città, italiane ed europee, come Firenze, Venezia, Parigi, hanno legato la loro fortuna all’acqua.
Siena, invece, data la geologia e la morfologia del suo territorio, non poteva godere di questo privilegio, denunciando, fin dalle origini, il suo “vizio di nascita“, cioè, “l’esser venuta al mondo un po’ come un incomodo“, costretta dunque a lottare sempre per garantirsi la propria ricchezza e la propria libertà.
Com’è allora che una così grave mancanza d’acqua, che impediva di dissetare adeguatamente i cittadini, irrigare i campi, far funzionare a dovere le industrie (per macinare il grano, lavorare il cuoio, la lana, etc…), non vietò a Siena di diventare una delle città più floride e importanti del Medioevo? Continua la lettura di La morfologia del territorio condiziona lo sviluppo urbanistico di Siena

Le ‘orme’ della Città di Siena

Questo studio non intende raccontare le origini della città di Siena, rimandando per questo scopo a testi ben più qualificati di questo, come, ad esempio quello di L.Bortolotti , da cui, tra l’altro, vengono attinte molte notizie sulla nascita della città. Ci si prefigge piuttosto l’obiettivo di ripercorrerne le tappe essenziali, utili per guidarci in maniera documentata, attraverso quella “storia dell’Uomo”, che nasce dai bisogni naturali di sicurezza e libertà, che spesso risultano essere leve delle stesse vicende storiche.

Il bisogno di ripararsi e aggregarsi in comunità è da sempre stato una delle necessità primordiali del genere umano. I primi insediamenti erano spesso “collocati in luoghi di sommità per ragioni difensive ma soprattutto economiche, poiché la posizione elevata allontanava dalle zone acquitrinose, metteva a disposizione gli arativi di collina, ed avvicinava ai boschi e alle fonti d’acqua” . Per quanto detto sopra, le colline dove sorse Siena erano certamente ideali da un punto di vista strategico, tuttavia le riserve d’acqua erano appena sufficienti per una piccola comunità, il che comunque non impedì di far nascere insediamenti fortificati di ridotte dimensioni con forma circolare. Del resto erano ben lontani i tempi dell’esplosione demografica e economica che investì Siena nel XIII secolo, costringendola ad ingenti spese per il reperimento di nuovi approvvigionamenti idrici. Fu dunque la facile difendibilità del luogo ad attrarre i primi abitanti di questi luoghi, nonostante la carenza d’acqua, che comunque, alle origini, non doveva rappresentare un grosso problema per un insediamento di modesta grandezza.
Tuttavia vogliamo dimostrare, seguendo un’interessante teoria proposta dall’architetto Brogi, che la scelta della posizione dell’agglomerato urbano e il suo sviluppo non fu, come logico, del tutto indipendente dall’ubicazione di zone che funzionavano da collettori per le acque piovane. Del resto, almeno per quanto riguarda i nuclei abitativi originari, “la forma è dapprima imposta alla società dal di fuori, e da essa accettata come dato di fatto” e successivamente modificata e “razionalizzata” per le diverse esigenze della comunità. Ciò che vogliamo indagare è proprio questo sviluppo spontaneo, che tuttavia risulta obbligato da leggi, come dire, “morfologiche e geologiche”, che delineano i tratti della “città naturale” . E’ noto che i primi spostamenti avvenivano lungo itinerari che seguivano il percorso dei fiumi, dei torrenti e dei fossi, non solo perché vi si poteva reperire l’acqua, ma anche perché più agevoli e comodi per transitarvi. Proprio per queste ragioni, quando il territorio non presentava zone pianeggianti, si preferiva camminare lungo i fossi, tra collina e collina, anch’essi luoghi di raccolta e scorrimento dell’acqua che scendeva dalle pendici delle alture. Quando si decideva di fermarsi, allora si incominciava a salire lungo i crinali, raggiungendo zone con ampia visuale per controllare il territorio circostante e difendersi così, grazie anche all’ausilio di palizzate di protezione, dagli attacchi nemici. Già da questa descrizione circa le modalità di migrazione è facile accorgersi come “i primi canali di raccolta delle acque coincisero con le strade tracciate per raggiungere i luoghi di insediamento” . Un simile sistema viario consentiva, nel modo più breve, soprattutto dai punti di sella, il raggiungimento della sommità delle colline, che, nel caso di Siena, sono aggregate in una sorta di altopiano collinare, costituendo di fatto il primo percorso che dal fondo valle mise in collegamento i vari rilievi. L’importanza di questi tragitti fu determinata dalla minor pendenza e quindi dalla più facile percorribilità per gli uomini e gli animali, oltre che dall’essere, in forte carenza di acqua, l’unico luogo in cui era possibile ricavare in derivazione fonti e cisterne. Seguendo questo tipo di ragionamento si vede come le linee di crinale, o di cresta, che costituiscono il principale sistema di strade della città, ancor oggi ben riscontrabile nella caratteristica forma a “Y”, “assumono un’importanza secondaria rispetto alle linee di erosione [identificabili con i percorsi lungo i quali sono salite le più antiche strade di Siena], poiché su quelle non potevano esistere fonti o altri luoghi di facile approvvigionamento idrico” . Va inoltre notato come, nel contesto orografico di Siena, le tre principali linee di crinale e quelle di erosione, o di fondovalle, convergano in un punto identificabile con l’attuale Piazza Tolomei, partendo dai fossi di Fontebranda, Follonica, Porta Giustizia. Per una più facile comprensione del fenomeno di inurbamento rimandiamo ad una serie di immagini che ne mostrano lo svolgimento.

Immagine1Figura 1. La linea di crinale e quella di erosione scavate dai continui passaggi. ( Arch. A. Brogi)

immagine2Figura 2. Le sommità, deforestate, vengono recintate. Si notino le cisterne d’acqua dentro e fuori l’agglomerato urbano. (Arch. A. Brogi).

Immagine3Figura 3. All’interno delle palizzate nasce il nucleo abitativo ( Arch. A. Brogi)

Immagine4Figura 4. Sulle sommità limitrofe sorgono agglomerati urbani con caratteristiche simili.

Immagine5Figura 5. Mano a mano i “borghi” aumentano fino a costituirsi in un unico centro urbano.

Questo modello di sviluppo aggregativo urbano si origina in tempi per così dire “predocumentari”, la cui verifica è comunque confortata da alcuni studi archeologici che rivelano insediamenti umani strutturati secondo quanto descritto già mille anni prima di Cristo. Nuclei abitativi di questo tipo sono stati rinvenuti sul crinale della collina sul lato ovest della vallata di Ampugnano, presso quella zona definita nella toponomastica, evidentemente non a caso, “Siena Vecchia“.

Le origini della ‘Siena Vecchia’

Anche se vi si rilevano solo poche tracce, peraltro nascoste dalla fitta boscaglia, il Prof. E. Mazzeschi (che ha curato gli scavi archeologici) ha potuto tracciare i tratti caratteristici di questi insediamenti, definiti “castellieri“, costituiti da una o più muraglie concentrate, formate con pietre accatastate che in alcuni casi raggiungevano i tre metri di spessore, sovrastanti, in questo caso, la vallata del torrente Rosia.

Il nostro tentativo di sottolineare il duplice ruolo avuto dalle strade quali collettori d’acqua e vie di transito, condizionanti lo sviluppo planimetrico della città di Siena, non sarebbe comunque ancora chiaro se non ci riferissimo all’esempio di Roselle, una tra le città più importanti dell’Etruria settentrionale, a 9 Km da Grosseto. Importante centro etrusco, costruito su due colline che dominavano l’antico lago di Prile e la valle d’Ombrone, importanti vie d’acqua verso Chiusi, Murlo e Siena, nel 294 a.C. fu conquistata e sottoposta a Roma, di cui divenne colonia, perdendo con l’autonomia anche l’importanza politica e strategica, venendo relegata al ruolo di “castrum“. Tuttavia proprio queste sfortunate vicende storiche hanno consentito a Roselle di tramandarci i resti, pressoché originari, della cittadina etrusca, che ci restituisce confortanti prove circa le linee direttrici di sviluppo urbano e il relativo rapporto tra strade e luoghi di raccolta delle acque. Nel VIII sec. a.C. le due colline su cui oggi sorge Roselle avevano ancora cinte murarie separate e al centro, lungo i fossi che le dividevano, salivano le strade che dal fondo valle procedevano verso il centro dell’agglomerato, dove i Romani edificarono il Foro ed altri importanti edifici.

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Esempi di strade che dai fondo valle risalgono verso la città. A sinistra: Siena, Valle di Porta Giustizia. A destra: resti archeologici della città di Roselle (GR).

Basta un sopralluogo per accorgersi di come questi percorsi incontrassero le opere idrauliche, denunciando il legame con esse. Si scorgono pozzi raccordati alle condotte poste ai bordi, dove l’acqua defluiva – grazie alla pavimentazione stradale – in doccioni di marmo che scaricavano nelle cisterne, come ad esempio quella di origine romana, la più rilevante; oppure le stesse strade di crinale che fungevano da collettori d’acqua, visti i numerosi pozzetti presenti nella zona alta della collina, dove sonopresenti le più antiche strutture della città.

Immagine8 Roselle. Canale di raccolta delle acque piovane posto ai margini di una strada.

Immagine9 Roselle. Canaletta di scolo di acqua piovana, riversata su una cisterna interrata.

Immagine6Una riproduzione di un castelliere del Prof. Mazzeschi.

Immagine11Un’immagine aerea di Monteriggioni.

Immagine12Estratto di veduta aerea della città di Siena: molti i tratti di murature ‘curve’.

Immagine13Forme circolari nel centro storico di Siena. Si intravedono le “impronte” dei primi nuclei urbani.

Quanto detto ci aiuta a capire come la possibilità di captazione dell’acqua sia stata fondamentale per la nascita di nuovi centri urbani dettando di fatto “il modulo capace di riprodurne i nuclei abitativi, fino a tesserne la trama”.

L’antico sigillo di Siena

Probabilmente anche l’antico castrum Senae, riferibile al sito di Castelvecchio, era simile ad un “castelliere”, costruzione, come ricordato, di forma circolare, situato su un poggio, alle cui pendici era possibile trovare risorse d’acqua per la vita quotidiana. Non stupisce affatto dunque la presenza, in zona, della piccola fonte chiamata Fontanella, di chiara origine etrusca, data la tipica volta a capanna, che ne caratterizza il “canale sotterraneo” per l’approvvigionamento idrico, o, sempre nelle vicinanze, la Fonte della Vetrice, oggi scomparsa, ma che Girolamo Macchi descriveva “ai piedi il Poggio Cardinale,[…], nel piano di Fontebranda” . Nel 913 sui documenti appare la menzione della domum episcopio senense e della sedes Beate Marie, indicando dunque uno spostamento ed un ampliamento dell’area culturale verso quella zona della città denominata “Castelnuovo”, sicuramente munita come il primo castrum di difese murarie almeno già dal 1012. L’aggregazione dei due castelli delinea la caratteristica forma “a farfalla” ravvisata dal Gallaccini (vedi tav. 1), dovuta anche all’accostamento di numerosi altri insediamenti, “sgranati sulle creste in corrispondenza delle sedi pianeggianti e conchiusi ciascuno entro forme murarie difensive tondeggianti, secondo configurazioni tuttora pienamente verificabili in alcune località del senese come Monteriggioni, Sovicille, Belcaro, Murlo” . La circolarità di numerosi percorsi viari attuali che costeggiano edifici ad andamento curvilineo accredita l’ipotesi che proprio insediamenti di matrice circolare siano la generatrice primaria del tessuto urbano senese, ossia traccino quelle che, con buona intuizione dell’Arch. Brogi, sono state definite le “impronte di città”. Il continuo proliferare lungo la linea di crinale ha suggerito la rappresentazione visiva della tavola 3, in cui si mostra l’inscindibile rapporto con le fonti di captazione idrica, situate, guarda caso, per lo più, presso i fossi che delimitano le linee di erosione delle colline (ad esempio il Fosso d’Ovile nelle cui vicinanze abbiamo ben due Fonti, Fonte d’Ovile e Fonte Nuova d’Ovile). Una quindicina sono i luoghi a cui si posso rapportare caratteristiche di questo tipo, fra cui la zona di S. Maurizio presso il Ponte di Romana, quella nelle vicinanze di Rocca Salimbeni, vicino al Rettorato dell’Università, o intorno S.Martino ad esempio, in cui accade persino di intravedere testimonianze, anche se interrotte, delle antiche strade di crinale, come il Vicolo degli Orefici, che ne conserva un breve tratto, disperdendosi poi presso alcune corti, come il Chiostro della chiesa di S. Martino, il cortile del Palazzo Piccolomini, fino a confondersi in Piazza del Campo, lungo la facciata convessa del Palazzo Chigi. E’ dalla seconda metà dell’XI secolo che, accanto ai castelli, si incominciano ad indicare nei documenti i borghi, come quelli di Camollia (1075), e di San Cristoforo, fortificati o racchiusi entro palizzate lignee, di cui una memoria figurativa è possibile riscontrarla nel “Guidoriccio”, affresco del Trecento, nella Sala denominata “Del Mappamondo”, all’interno del Palazzo Pubblico di Siena. A differenza dei castelli, le strutture dei borghi erano strutturalmente più flessibili, e proprio “il loro proliferare e il loro incunearsi fra i castelli è l’elemento coesivo generatore dell’attuale aspetto urbano di Siena” . Sta di fatto che già alla fine dell’XI secolo, nel 1071, compare per la prima volta nella documentazione a noi pervenuta il nome di Siena al plurale, anziché al singolare: “con tutta evidenza ciò significa che in qualche modo si prende atto dell’esistenza di una nuova Siena, o di più nuove Siene, contrapposte all’antico nucleo”. Un sigillo attribuito ai primi del Duecento, ma probabile rifacimento di uno più antico, (fig.13) è la prima immagine che abbiamo della città. Di forma rotonda e circondato dalla scritta “vos veteris sene signum noscatis amene” (cioè “conoscete il segno dell’amena antica Siena”), rappresenta, in modo simbolico ma con tratti emblematici e crediamo realistici, l’aspetto della città senese intorno al Mille. Una alta cinta di mura merlate, con tre alte torri, racchiude un raggruppamento di edifici, apparentemente case-torri, isolate una dall’altra, costruite in conci di pietra. Questo non può non richiamare quanto detto circa le caratteristiche dei “castellieri”, primi nuclei abitati della zona , avvalorando ancora di più le ipotesi fatte sugli antichi insediamenti.

Immagine16bisDunque le progressive saldature di nuclei contigui, il conseguente venir meno della funzione difensiva delle primitive strutture murarie dei castelli e la loro integrazione nel tessuto abitativo inducono, intorno al X-XI sec., alla costruzione della prima cinta muraria, a cui nel corso dei secoli si aggiungeranno i successivi sviluppi, fino agli inizi del XV sec., quando se ne completerà l’ampliamento nella forma attuale.

L’importanza di esempi etruschi

Una simile imponente opera non poteva prescindere dal corretto coordinamento di una fase di progettazione, realizzazione, uso, e manutenzione di un opera, che come già detto, svolse la sua funzione fino ai primi del Novecento, allorché non fu costruito il “moderno” Acquedotto del Vivo (1914-1919). Rimane comunque innegabile l’importanza degli esempi etruschi, tutt’oggi riscontrabili in molte zone dell’alto Lazio. La perizia degli ingegneri etruschi nell’individuare le vene d’acqua, nel captarle e nel canalizzare le acque di superficie si mostra con grande evidenza nella sistemazione e bonifica del territorio dell’Etruria. E’ noto come la fonte di sussistenza di queste zone, in età antica, oltre all’agricoltura, fosse lo sfruttamento dei giacimenti metalliferi e il loro conseguente commercio. E’ dunque da una serie di competenze ben sperimentate e dalla necessità di lavorare la terra che scaturì l’esigenza degli aquilices non solo di individuare falde freatiche e aprire pozzi, ma anche quella di avere competenze circa la conduzione dell’acqua in zone poco irrigate, oppure riguardo al drenaggio della terra in zone particolarmente umide, attingendo a quelle professionalità tecniche che li indussero a costruire una serie di cunicoli sotterranei scavati nel tufo, ben visibili in diverse località dell’Etruria e del Lazio. Gli studiosi sono ancora incerti circa l’effettivo utilizzo che di essi se ne faceva. C’è chi propende per l’idea che servissero esclusivamente per la bonifica agricola del territorio, per evitare ambienti eccessivamente acquitrinosi che favorissero lo sviluppo della malaria. Altri pensano che fossero sistemi di irrigazione dei campi, e fossero utilizzati per lo più per usi agrari. Oggi si propende a credere che questi cunicoli svolgessero come primaria la funzione di conduttura di acqua potabile e come secondaria quella di drenaggio, di captazione delle sorgenti perenni, di derivazione d’acqua da rivi o fiumi, forse per uso irriguo. Il Casoria individua una vasta gamma di utilizzazioni dei cunicoli che va da quella fondamentale del drenaggio dei terreni, a quella del trasporto di acqua per l’irrigazione, alla deviazione di corsi d’acqua nella realizzazione di importanti arterie (vedi in proposito T.W. Potter, Storia del paesaggio dell’Etruria meridionale, Roma, 1985: “si creano cunicoli per deviare corsi d’acqua e agevolare il passaggio delle valli”), allo scolo e alla raccolta di acque nei contesti urbani, alla “funzione di veri e propri acquedotti per fornire di acqua taluni insediamenti” . Ecco il punto, ecco il trait-d’union con i bottini senesi. La datazione di questi cunicoli etruschi è rapportabile al V secolo a.C., anche se l’inquadramento cronologico assoluto è difficile da stabilire, mancando elementi che possano legare queste costruzioni con lo sviluppo urbanistico di una particolare città. Alcuni studiosi anticipano il periodo anche tra l’VIII ed il V secolo, legando le opere di canalizzazione alla presenza di insediamenti stabili di una popolazione impegnata in una attività agricola.

Sebbene le prime comunità protourbane si affermino intorno al IX secolo a. C., la sofisticatezza delle opere di scavo sembra piuttosto riferibile ad un momento nel quale la comunità ha preso piena coscienza di sé ed ha disposizione mezzi e tecniche per procedere in un lavoro che dovette richiedere necessariamente la presenza di una struttura urbana ben organizzata. Questa situazione sarebbe riscontrabile nel IV secolo avanti Cristo. A favorire e quasi suggerire lo scavo dei canali sotterranei è stata certamente la natura del suolo, che non opponeva grandi resistenze. Forti sono le analogie con i bottini senesi. Non solo si costruiscono a metà di due strati geologici di cui uno permeabile (arenarie o tufo che sia), per l’infiltrazione dell’acqua, e uno impermeabile (argilla) che fungesse da collettore, determinando il limite inferiore che gli operai dovevano seguire nello scavo. Anche le caratteristiche delle dimensioni sono pressoché identiche: si presentano tutte a sezione ogivale di 1.70 m circa di altezza per 60 cm di larghezza. Le pareti interne recano tutt’oggi segni di lavorazione, il cui andamento arcuato suggerisce che lo strumento utilizzato sia stato usato in modo oscillante ed abbia avuto una lama piuttosto appuntita. Negli stessi tratti nei bottini senesi sono ben visibili questi segni, causati dagli strumenti dell’epoca, zapponi, picconi a una o due punte, pale, palette, ascioni. Nei terreni più duri si ricorreva anche a paletti di ferro, mazze, mazzapicchi da pietra e lunghi scalpelli, tali comunque da essere ben maneggevoli pur nelle limitate condizioni di spazio in cui ci si trovava. Nei territori dell’Etruria si trovano pozzi verticali che arrivano, in casi eccezionali, anche a 30 m di profondità, utili per arrivare a scavare il cunicolo. Sui lati lunghi si trovano delle nicchie identificate come punti di appoggio per la discesa, poste ad una distanza fra loro di 50 cm ca. Tali pozzi sono posti a 30-60 metri l’uno dall’altro. Anche qui si trova una sconcertante quanto evidente analogia con gli “smiragli” delle condotte senesi, ricalcandone anche la funzione, quale vie di uscite per il materiale di sterro, forse tirato fuori per mezzo di funi o passato a mano con dei cesti. Per quanto riguarda le strutture senesi è certo anche che i pozzi servissero come controllo “a vista” per verificare la giusta direzione di scavo e ridurre al minimo l’entità dell’errore (inevitabile). Come ci dimostrano alcuni disegni di Mariano di Iacopo detto il Taccola (1381-1458?), nel Trecento si pose grande attenzione nello studio della costruzione di queste gallerie per la canalizzazione delle acque.

L’origine etrusca dei bottini

Con i loro 25 Km snodati sotto terra, i bottini riuscivano a collegare e fornire d’acqua tutta la città, facendo sfociare zampilli in tutte le fonti pubbliche, orgoglio e vanto dei Senesi, e nelle centinaia di pozzi e cisterne privati. Un duro lavoro, durato più di due secoli, che è costato non solo ingenti somme di denaro, ma soprattutto fatica e, in qualche caso, la vita, di quanti, maestri, minatori specializzati, “vettuariali” o semplici cittadini presi “a giornata” credevano nella realizzazione di un sogno che per secoli ha alimentato le speranze di libertà e ricchezza della Repubblica senese. Un lavoro che ci ha restituito un patrimonio artistico di immenso valore, non solo per l’indubbio pregio architettonico, ma anche per la qualità tecnica della realizzazione, efficiente e ben funzionante, nelle sue prerogative originarie, fino agli inizi del Novecento. Esemplare perfino come monito a non scoraggiarsi alle prime difficoltà, perseguendo con costanza e fiducia i propri obbiettivi.
Dunque i bottini: gallerie sotterranee scavate nel tufo in direzione di vene sgorganti fuori dalle cinta murarie, ma soprattutto alla ricerca di acqua di stillicidio.

Immagine22Queste altro non erano che dei cunicoli con la caratteristica volta “a botte” (da cui il nome “bottini”) che grazie alla permeabilità del terreno in cui erano scavati (cioè porosissime sabbie arenarie), facevano filtrare l’acqua piovana, depurandola, per poi convogliarla in basso, in una scanalatura larga circa 15 cm e profonda 20 cm, chiamata “gorello”, da cui, per gravità, seguendo una pendenza pari a 1×1000 (un metro di dislivello per ogni chilometro), andava a sfociare nelle fonti pubbliche. Uno degli esempi più antichi, autonomo, scollegato dalla rete “primaria”, è quello, già ricordato, che porta acqua all’antica fonte di Fontanella, nei pressi di Castelvecchio. Ormai impreziosito dalle incrostazioni calcaree, che ne alimentano il fascino con i loro giochi di stallattiti, è di forma circolare e appare, caso unico, con la caratteristica volta a capanna, testimonianza di una probabilissima origine etrusca.

Come anche individuato dallo stesso Bargagli Petrucci i bottini senesi appaiano come “i figli legittimi dei sotterranei etruschi ampliati e rimodernati dal genio romano” . Inoltre l’erudito senese ipotizza in epoca romana la presenza di un acquedotto, non aereo, ma costituito da cunicoli che andavano a pescare le scarse acque di stillicidio, le quali comunque, già alla fine del IV secolo sembra essere ormai rovinato. Si ritiene dunque “ipotesi non fantasiosa” che i tratti più antichi pre-trecenteschi, dell’acquedotto abbiamo derivato il loro aspetto proprio da questi cunicoli etruschi con la volta a capanna. Di fatto quando si parlava di ” visionaria pazzia”, che aveva permesso di vedere una soluzione al problema incompleta, magari poco definita, eppure supportata da dei risultati inconfutabili” ci si riferiva proprio a quel tipo di esperienze etrusche in fatto di costruzioni idrauliche. Quello che le popolazioni italiche avevano fatto in dimensioni ridotte, i Senesi fecero, per così dire, in “larga scala”, adattando ad una realtà cittadina quello che in antichità era previsto per zone di ben più piccola grandezza. L’intuizione del popolo senese è l’aver concepito quella soluzione come trasportabile, pressoché in fotocopia, in una più vasta realtà, prevedendo un piano di coordinamento e organizzazione delle varie professionalità coinvolte nella realizzazione degno di una società moderna. Di fatto si sperimentò una sorta di “processo edilizio” ante litteram, che coinvolse tutto il tessuto civile cittadino.

I ‘bottini’ e il mito del fiume Diana

Abbiamo solo accennato ai “bottini”, di fatto ricoprendo l’argomento di un alone di mistero. Sebbene infatti il termine “boctinus” appaia per la prima volta in un documento del 1226, Siena ha cercato di mantenere nascosto il più a lungo possibile il suo segreto, la fonte stessa della sua ricchezza, sopportando anche gli sberleffi di alcuni “intellettuali” del tempo, come Dante, che ritenevano quantomeno “vana”, illusoria, l’ostinata ricerca di un adduzione d’acqua sotterranea. Di certo, qualunque nome le sia stato dato, Diana o quant’altro, i Senesi erano fermamente convinti che la soluzione ai loro problemi si potesse trovare solo nel sottosuolo, come probabile collettore di vene d’acqua. Del resto l’impresa disperata di deviare il corso del fiume Merse non parve praticabile nemmeno alle Autorità del tempo, ben consce delle insormontabili difficoltà del progetto. Per questo, fin dalle origini, profusero sforzi enormi per sondare il terreno alla ricerca di riserve idriche sfruttabili, affidandosi a dei “rabdomanti”, convinti del ritrovamento di un corso d’acqua sotterraneo. Un simile atteggiamento non deve apparire solo ostinazione improduttiva, cocciutaggine fine a stessa, o peggio “disperazione”. Crediamo di scorgere, invece, in questo comportamento una lungimirante, visionaria “pazzia”, che aveva permesso di vedere una soluzione al problema incompleta, magari poco definita, eppure supportata da dei risultati inconfutabili. Come in un gioco degli specchi tra apparenza e realtà, ragione e assurdo, saggezza e follia si andava delineando l’idea di uno degli esempi più affascinanti dell’ingegneria idraulica medievale. Del resto l’intuizione “visionaria”, quella capace di cogliere gli impescrutabili messaggi forniti dall’esperienza esterna, meglio, dall’esperienza altrui, viene sempre percepita al suo manifestarsi come priva di buon senso, addirittura assurda. E’ solo in un secondo tempo che si afferma, viene riconosciuta, poi accettata e persino propugnata da chi prima l’avversava. Mai come in questo caso Dante, il Sommo poeta, era stato così cattivo vate, sbeffeggiando il sogno dei Senesi di trovare il mitico corso d’acqua sotterraneo: che cos’altro dunque era la Diana se non i bottini?

dantediana

L’acqua, bene prezioso da tutelare

La conseguenza di tanto lavoro era una severa legislazione di controllo, affinché fosse garantito il corretto utilizzo dei bottini, e se ne regolasse efficacemente la manutenzione. Spesso accadeva che fossero i contadini stessi, sotto i cui terreni passava un bottino, a distruggerne i pozzi, perché non sopportavano di vedersi vietare la coltivazione e la concimazione delle colture, a causa delle famigerata “zona di rispetto” che dovevano tenere sempre sgombra e priva di piante, perché queste potevano con le loro radici danneggiare la volta del cunicolo sottostante. Né, potevano deviare il corso delle acque a proprio tornaconto, a fronte di pene severe. Guai inoltre a chi si fosse fatto trovare indebitamente dentro i bottini: sarebbe andato incontro a morte certa! Sarebbe stato infatti accusato di spionaggio e attentato alla Repubblica, la cui sopravvivenza politica ed economica era custodita proprio dai bottini, che ne garantivano il continuo flusso d’acqua. Del resto chi avesse potuto avere libero accesso nei cunicoli, sarebbe potuto entrare in città indisturbato adoperandoli come Cavallo di Troia. Non sono infrequenti infatti nella storia senese i tentativi dei nemici di scoprire la mappa precisa di queste gallerie sotterranee che avrebbe permesso l’accesso invisibile di truppe ostili nel cuore della cittadina da conquistare. E quando simili tentativi fallivano, ci si accaniva con alcuni tratti di bottino scoperti, la cui distruzione avrebbe impedito il regolare flusso delle acque in città e sfinito e costretto alla resa la popolazione. Del resto è quel che accadde, come ci racconta il Fantastici, durante l’assedio del 1553, quando i Fiorentini devastarono alcuni tratti scoperti dei bottini di Fonterutoli, a nord di Siena, togliendole inesorabilmente la linfa vitale che le permetteva di resistere all’assedio, constringendola alla capitolazione nel 1555. La storia ci racconta che il governo di Siena si ritirò esule a Montalcino, dove resistette tenacemente ancora quattro anni, perdendo definitivamente la libertà nel 1559. Ricordando le parole dell’illustre senese Bargagli Petrucci “Siena che aveva tanto fatto e tanto speso nel ‘200, nel ‘300 e nel ‘400 per la salute dei cittadini e per l’ornamento della città, si trovò nel ‘500 quasi con i soli bottini di Fonte Branda e di Fonte Gaia e anche questi mezzi rovinati e scarsi d’acqua. Il governo mediceo fece il resto e l’acqua si ridusse in quantità e peggiorò in qualità”.

Le tecniche di scavo

Come ricorda lo storico Balestracci, i bottini duecenteschi denotano una certa scarsa acquisizione di conoscenze tecniche, tanto che non è prevista nessuna impermeabilizzazione nei confronti delle infiltrazioni calcaree che quindi incrostano ben presto il canaletto di scolo con il loro tipico rivestimento bianco. Nel XIV secolo Siena cambia volto. Il governo dei Nove le dà un’immagine del tutto inedita: il mattone sostituisce la pietra grigia, la città assume quella connotazione cromatica rossa che la caratterizzerà in tutte le rappresentazioni iconografiche. Si realizzano i progetti per la selciatura e la mattonatura delle principali strade cittadine, la costruzione del Palazzo Pubblico con la Torre del Mangia, la recinzione della città nell’ultima cerchia di mura. E’ in questo clima nuovo che nel 1334 viene dato l’incarico di studiare la costruzione di un nuovo ramo del bottino a Jacopo di Vanni di Ugolino che elabora un progetto di conduzione dell’acqua da Nord. E’ la diretta conseguenza della crescita demografica, economica e politica che vive Siena fra il XII e il XIII secolo. Già a partire dal 1246 si fanno lavori per cercare nuove vene per alimentare Fontebranda; nelle spese si fa riferimento a migliaia di mattoni e docci e grandi quantità di calcestruzzo che dovrebbero servire a consolidare gli scavi. Altri lavori vengono avviati per aumentare la portata d’acqua delle altre fonti. Nel 1250 è la volta di Fonte di Val di Montone, poi quella di Pescaia il cui bottino viene collegato con il ramo di Fontebranda, poi Fontebecci. Con i lavori del ramo di Fonte Gaia si va delineando l’assetto definitivo delle rete dei bottini, costituita da due tronconi principali: quello più antico di Fontebranda, di circa 3,800 Km e quello di Fontegaia-Colombaio, lungo circa. 5,750 Km. E’ così che “l’operaio del bottino” Jacopo di Vanni s’incarica di realizzare un’opera fino ad allora ritenuta quasi impossibile: un bottino alto tre braccia (un metro e mezzo) e largo almeno uno e mezzo (80 cm circa) per far arrivare nel Campo la stessa quantità di acqua quanta quella che scaturisce da Fontebranda, proverbialmente copiosa e di ottima qualità. Nell’opera di scavo c’è una novità tecnica rilevante. Infatti quando si aprivano i vecchi bottini duecenteschi, lo scavo partiva dalla fonte e si procedeva poi, con salita costante, procedendo tra due strati geologici: uno di sabbie gialle, che funzionava da filtro delle acque piovane, ed un altro sottostante di argille impermeabili, che fungeva da collettore. La soluzione trecentesca, invece, prevedeva due squadre che partivano da due punti opposti e che tendevano a ricongiungersi a metà percorso, con evidente risparmio di tempo e denaro. Esiste un tratto del bottino di Fonte Gaia dove si può presumere che l’attuale cunicolo derivi dall’unificazione di due distinte gallerie che, in quel punto, correvano sovrapposte per un evidente errore di direzione, dovuto, oltreché al fatto di doversi adattare alla conformazione del terreno, anche agli sbagli delle due squadre che avevano lavorato evidentemente ad un livello diverso l’una dall’altra. Molto spesso, in superficie, si riesce a sapere se sotto scorre un bottino perché è possibile riconoscere a intervalli di distanza la presenza degli “occhi” o “smiragli” che impedivano errori grossolani. Questo tipo di accorgimento si trova anche nei cunicoli etruschi, dove il cambio di direzione avveniva in genere nel punto in cui si trovava un pozzo verticale. Dopo varie vicissitudini, finalmente l’acqua arriva in Piazza del Campo (1343). Nel 1346 il cammino del bottino maestro è giunto a Fontebecci, si cerca di allacciarlo alle acque del fiume Staggia all’altezza di Quercegrossa con grandi difficoltà. Nel 1387 viene portato a termine il ramo di Uopini. Su impulso della Corporazione dei Lanaioli di Fontebranda e dei mugnai della stessa zona si lavora per incanalare nel bottino omonimo l’acqua di Mazzafonda, un immissario dello Staggia, ma nel 1429 i lavori si fermano a Fontebecci. Proseguono invece incessantemente per far affluire l’acqua di varie vene nel canale maestro dato che in Fonte Gaia “per ben quattro anni l’acqua non v’era ita” e lo stato d’incuria era tale che “per ogni piena veniva l’acqua torba ne la detta fonte”. Nel 1437 si lavora al ramo di Marciano e l’anno dopo si scava sotto il prato di Camollia delle grandi vasche di decantazione, chiamate i “galazzoni”, una struttura cioè che permette all’acqua di passare attraverso una serie di piscine a profondità variabile in modo da depositare la maggior quantità possibile di calcare e di impurità. Questa specie di grandi cisterne sotterranee sono comuni anche in alcune città etrusche, come Caere o nella zona di Orvieto e dovevano essere utilizzate nei periodi di prolungata ed eccezionale siccità. Dunque i cunicoli etruschi non si limitavano a svolgere funzioni prettamente agricole, ma rivestivano anche un ruolo “urbano”, che consisteva nel captare le acque di infiltrazione, raccoglierle e distribuirle nei centri che avevano difficoltà nell’approvvigionamento idrico, talvolta, come visto, messi in relazione con grandi ambienti scavati nel tufo, vere e proprie cisterne. Il sottosuolo di molte città etrusche presenta la situazione appena descritta: se ne trovano esempi a Civita Castellana, Viterbo, Bomarzo, Cerveteri, Tuscania e Castro. In particolare questi sistemi di gallerie sotto gli insediamenti urbani sono noti a Veio, Caere e Chiusi e costituiscono antichi esempi di reti idriche, da cui crediamo i Senesi abbiamo preso esempio e di cui di certo erano a conoscenza. Non può dunque non risultare evidente adesso lo stretto legame tra questo tipo di esperienze e il loro successivo sviluppo nei Bottini, che continuano ad essere costruiti incessantemente per almeno due secoli, raggiungendo l’ampiezza massima totale di 25 Km. Dalla metà del Quattrocento si registrano, infatti, per lo più solo lavori di manutenzione e ripristino dei danni provocati da crolli imprevisti o tentativi di sabotaggio da parte dei nemici. Nel 1461 per esempio risultano rovinati i rami di Quarto, dell’Acquacalda e altri più vecchi. Una relazione del Consiglio Generale informa che se il Comune non provvederà a riparare almeno i guasti principali nel prossimo mesi non arriverà più una goccia d’acqua nella Fonte del Campo.

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L’organizzazione del cantiere

L’organizzazione del cantiere per la costruzione di un bottino coinvolgeva ogni anno molte centinaia di operai fra manovali, maestri ed anche donne a cui si aggiungevano numerosissimi “vetturiali”, cioè coloro che trasportavano i materiali necessari ai lavori. Spesso i manovali venivano reclutati e pagati giorni per giorno, le donne probabilmente svolgevano, invece, i lavori di superficie, come la rimozione del materiale scavato. I “maestri”, depositari delle tecniche di scavo, erano gli unici operai specializzati del cantiere, denotando anche in questo la partecipazione dell’intero tessuto sociale per l’ottenimento di un bene essenziale come l’acqua. Del resto chi possedeva i “segreti” dell’arte dello scavo aveva ingaggi più duraturi dei manovali; in genere guadagnavano il doppio del salario degli operai, che, a loro volta, ricavevano una somma doppia, rispetto alle donne, con chiara discriminazione. Erano previste anche delle integrazioni al salario, consistenti in generi di conforto: pane, acqua ed in più “un quartuccio di vino per uno” che serviva, oltre a dissetare, soprattutto a corroborare gli uomini che lavoravano perennemente sotto terra e mai alla luce del sole, costringendoli a diventare praticamente ciechi, da cui la tradizione trasse il nome di “guerchi”, o “guerci”, indicando chi lavorava nel bottino sottoterra, in un atmosfera tenebrosa, che certo contribuì ad alimentare tutta quella serie di inquietudini e paure che portò all’interno dei cunicoli alla creazione di piccoli tabernacoli o nicchie dove appoggiare immagini sacre a cui chiedere protezione. Non è raro trovare incise nel tufo delle croci davanti a cui si pregava e si domandava aiuto. Si temeva la presenza di animali fantastici, quali, ad esempio, “il fuggisole”, mitico animaletto capace di avvelenare, o si credeva che abitassero in quei luoghi bui e misteriosi dei piccoli “hominicciuoli”, che vagavano nelle gallerie vestiti come minatori… I ritmi di lavoro erano massacranti: si andava dall’alba al tramonto, quasi ininterrottamente. Nel Medioevo, in genere, si proibiva, il lavoro notturno dato che vi era il rischio di incendi causati dalle torce che dovevano illuminare e certo non favorivano la respirazione in quelle gallerie anguste. Tuttavia accadeva anche che, per accelerare i tempi di realizzazione dell’opera, si permettesse in aperta campagna di lavorare anche di notte. Di fondamentale importanza era il ruolo dei vetturiali dai quali dipendeva l’approvvigionamento dei materiali. Questi facevano la spola fra il cantiere e le zone di rifornimento del materiale; trasportavano i mattoni dalle numerose fornaci, caricavano dalla Montagnola i correnti e le travi di legno che servivano per armare la volta e le pareti dello scavo. Infatti nel cantiere, privo di qualsiasi sicurezza, poteva accadere che si avessero delle frane o la volta cedesse se mal puntellata. Gli imprevisti erano sempre dietro l’angolo. Talvolta accadeva che qualcuno cadesse nei pozzi scavati per collegare i cunicoli con l’aria aperta. Le difficoltà del terreno richiedevano, qualche volta, competenze tecniche che gli operai generici non possedevano, costringendo il Comune a rivolgersi ai minatori delle miniere di Massa e di Montieri, e in casi eccezionali anche provenienti dalla Germania. Questi ovviamente godevano di un trattamento normativo ed economico privilegiato. Da qui un’altra interpretazione del termine “guerco”, suggerita dal Balestracci: deriverebbe da “werk” che in tedesco, appunto, significa “zappatore”. Il lavoro era – come si può ben immaginare – massacrante, dato che si usavano strumenti semplici e non era agevole lavorare in ambienti angusti e male illuminati.

Immagine24 L’unico strumento “tecnico” di cui ci si avvaleva era “archipendolo”, utilizzato per stabilire la corretta pendenza del canale di scorrimento dell’acqua. Consisteva in un attrezzo a forma di triangolo isoscele al cui vertice era fissato un filo a piombo che passava per il punto di mezzo della base quando era disposta in perfetta posizione orizzontale. Per tenere pulito il condotto ed evitare che detriti e “gruma” lo intasassero, si faceva ricorso a raschietti ad uncino, effettuando quell’operazione definita “sgrumatura”. Una volta scavato il cunicolo si doveva armare e consolidare, quindi dietro gli scavatori c’erano operai con strumenti da carpentiere per puntellarlo con delle travi e altri con strumenti da muratore per consolidare l’opera con calcina e mattoni, destinati alle spallette, alle volte, al pavimento, alle canalette.