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Le Fonti senesi

Seguendo quanto detto fino ad ora non è un caso, dunque, se, proprio ai piedi della collina di Castelvecchio, poste intorno alle mura del “castrum” e della città romana, si trovino le Fonti più antiche: La Vetrice (di cui non conosciamo bene la posizione, ma collocabile, come detto, presso la vallata di Fontebranda), Fontanella, la “vecchia” Fontebranda e la Fonte di Follonica, oggi in condizioni disastrose, ma nel XII sec di grande importanza. Le sorgenti d’acqua dell’antico nucleo urbano risultano fuori dalle mura, adagiate ” in fondo ad ogni ripida valle come se fossero sdrucciolate dalla sommità del poggio imminente” , con caratteristiche assolutamente originali rispetto quelle delle fontane greche o romane, della cui esperienza, peraltro, fanno tesoro, “specialmente nelle sculture di mascheroni e teste di leone buttanti acqua ” . Tuttavia, a Siena, la fonte , soprattutto quella dei primi secoli, non fu né “grandiosa come le Terme, né graziosa come la vasca del nobile pompeiano” , ma acquistò un’impronta inconfondibile, che ritroviamo solamente là dove l’arte senese riuscì ad avere una certa influenza, come a S. Gimignano o Massa Marittima. Le fonti senesi si presentano, per la maggior parte, come strutture dalle grosse muraglie, dotate di grandiosi archi acuti in facciata, con pilastri che sorreggono volte a crociera, rivestimento esterno di mattoni “a cortina” e un coronamento di archetti con sovrastante merlatura. Fontebranda era meta, per esempio, fin dal Medioevo, degli stessi pellegrini che transitavano per Siena, lungo la Francigena, non solo per la funzione ristoratrice che svolgeva dopo il lungo viaggio, ma anche per la sua bellezza architettonica, che esaltava il fascino delle acque, tanto che lo stesso Alfieri, qualche secolo più tardi, la celebrò dicendo: “Fontebranda mi trae meglio la sete, /parmi, che ogni acqua di città latina”.

Immagine18Del resto i senesi posero sempre grande cura nella costruzione e nell’abbellimento delle fontane pubbliche, facendole spesso decorare dai massimi artisti e curandone in maniera quasi “sacrale” l’organizzazione non solo idraulica, ma anche, come vedremo, giuridica, economica e sociale. Le fonti, infatti, esprimevano l’orgoglio di tutto il tessuto civile della piccola Repubblica, consapevole che la vita, la prosperità e la forza della città dipendevano dalla salvaguardia delle sue riserve d’acqua, dunque delle fonti stesse e di quella rete capillare di “angusti e tenebrosi cunicoli sotterranei”(che di esse ne sono le arterie), chiamati “bottini” e di cui si parlerà più diffusamente in seguito. Come più volte ricordato, anche nel Medioevo, ci si rende conto dell’importanza vitale dell’acqua, e pertanto non stupisce se ad essa si attribuisce una valenza “magico -sacrale”, quale, appunto, dispensatrice di vita e prosperità, concetti inconsciamente ereditati dall’antichità pagana. Si hanno numerose testimonianze di questo retaggio, come quando, nel Trecento, per adornare la Fonte del Campo, vi fu posta un’immagine di Venere (forse di Lisippo), che tuttavia, ritenuta la causa delle disgrazie abbattutesi sulla città, a causa del suo ammiccare alla mancanza di inibizioni del paganesimo, fu definitivamente tolta, perdendone per sempre le tracce. Associare l’acqua a figure di divinità femminili era consuetudine abbastanza comune, a Siena, come in altre città, visto il ruolo della donna quale “genitrice di vita” e quello delle fonti quali “procacciatrici di vita”. Proprio per questo forse i Senesi dettero il nome di Diana al mitico fiume sotterraneo che affannosamente ricercarono con grandi spese di mezzi per molti anni, convinti che sotto la città scorresse un grande corso d’acqua, che potesse risolvere l'”atavico” problema dell’approvvigionamento idrico. E parvero addirittura trovarlo, quando nel 1176, secondo la cronaca tardo-trecentesca del Bisdomini, i frati del convento del Carmine, scavando un pozzo presso Castelvecchio, scoprirono una vena d’acqua di una certa rilevanza, ma che tuttavia non era, come ovvio, il mitico fiume, che, per tutto il Trecento, continuò a impegnare le Autorità Comunali nella sua ricerca, con grande dispendio di energie umane ed economiche, diventando per, per così dire, “proverbiale”. Lo stesso Dante, nella Commedia, irride, con tono ironico e beffardo, la dissennatezza dei Senesi, che continuavano a illudersi di trovare il corso d’acqua sotterraneo, facendo dire a Sapia de’ Tolemei (Purg. XIII 152-155) circa i suoi compatrioti: ” Tu gli vedrai tra quella gente vana/che spera in Talamone; e perderàgli/ più di speranza ch’a trovar la Diana; ma più vi perderanno gli ammiragli….”! Mi si permetta di dire, con la riserva di spiegarlo nel seguito di questo studio, che mai come questa volta il Sommo Poeta fu così cattivo vate…..!
Un fatto comunque rimane: l’assoluto bisogno da parte di Siena di abbondanti risorse d’acqua, siano queste l’agognato sbocco al mare (Talamone), la Diana o qualunque altra rete idrica…Sono numerosi i tentativi, nel corso dei secoli, di dotarsi di un piano di adduzione di acque che risolvesse una volta per tutte le necessità di un nucleo urbano che via via era venuto ingrandendosi, ricoprendo un ruolo di assoluta importanza nello scenario europeo dell’epoca. Si ravvisava la necessità di un progetto “risolutivo” che ponesse la parola fine alla “grande sete” che affliggeva un’intera città. Non mancarono proposte ardite e a dire il vero un po’ fantasiose, che tuttavia trovarono l’appoggio e il sostegno di uomini potenti e stimati, come quel Provenzan Salvani, che fece approvare dal Consiglio Generale – nel 1268 – il piano per derivare fino alle fonti senesi l’acqua del fiume Merse, impresa a dir poco ardimentosa per le difficoltà e le spese che avrebbe comportato collegare la città con un corso d’acqua così lontano. Tuttavia il “sogno della Merse” naufragò a causa delle vicissitudini che Siena dovette affrontare in quegli anni e mai più realizzato. Del resto si sa, i Senesi sono gente cocciuta e amano confrontarsi con sfide impossibili, e quindi, qualche secolo più tardi, nel 1468, la Repubblica senese avviò l’ambizioso progetto di realizzare un lago artificiale , sbarrando il corso del fiume Bruna, mediante una diga nei pressi di Giuncarico, affidando i lavori anche a qualificati tecnici, quali Francesco di Giorgio Martini, richiamato in patria da Napoli, dove prestava la propria opera per il Duca di Calabria, al fine di intervenire per rimediare al rischio di rovina di una simile struttura. La diga era destinata, a quanto pare, a formare una riserva ittica per approvvigionare la città, costretta ad importare una considerevole quantità di pesce dal lago Trasimeno con notevole esborso di denaro. Evidentemente sono lontani i tempi in cui ci si preoccupava della ricerca dell’acqua, quale elemento fondamentale per i bisogni primari dell’uomo!
Le fonti, infatti, assolvevano perfettamente alla funzione di serbatoio idrico, permettendo a Siena di tener testa con le sue manifatture a quelle di Firenze, che poteva contare sull’Arno. E se è vero, come abbiamo visto, che lo sviluppo urbanistico non potette prescindere dalla posizione delle sorgenti d’acqua, nondimeno lo stile architettonico gotico pervase fortemente, com’è logico, anche costruzioni civili, quali le fontane pubbliche, che, con il loro intrecciarsi e talvolta nascondersi (vedi Fonte del Casato) nel tessuto cittadino, lo hanno alla fine fortemente caratterizzato: da una parte le cosiddette “fonti maggiori” (Fontebranda, Fonte d’Ovile, Fonte di Pescaia, Fonte di Follonica,etc…); dall’altra tutta quella rete idrica composta dalle centinaia di fonti minori, dalle cisterne, dai fontini, dai canali, dai pozzi all’interno delle corti dei palazzi nobiliari, che tutt’insieme formano un patrimonio unico nel suo genere, di cui Siena, da sempre è rimasta orgogliosa. Per questo ciascuna delle grandi strutture per la raccolta delle acque è così ben caratterizzata, figlia di quell’architettura gotica, di cui Siena è rimasta, nel corso dei secoli, un esempio ineludibile, quasi come “cristallizzata” nel tempo di suo massimo splendore, refrattaria, dopo la perdita della libertà ad opera dei Medici, a qualsiasi novità culturale che provenisse dagli ambienti fiorentini. Secondo il Bargagli Petrucci lo stile gotico era come condizionato (si direbbe anch’esso?) dalla topografia della città, in quanto pare riscontrare che ebbe maggiore sviluppo in località montuose e irregolari (Perugia e Siena) “a preferenza delle città di pianura (per esempio Firenze) le quali invece furono più favorevoli all’architettura della rinascenza” . Questo perché, diceva, “lo stile archiacuto è nemico delle linee troppo allungate orizzontalmente e delle parti simmetriche mentre ama le altezze, le torri, le cuspidi e le guglie. Piccole le case ed alte. Su per le ripide vie il palazzo signorile ha le finestre in numero pari cioè non ha finestra centrale; disuguali quelle del primo piano da quelle del secondo, quelle di destra da quelle di sinistra, quelle di una facciata da quelle di un’altra. Le porte fuori del punto di mezzo, molto allungate le normali, più basse quelle a monte e allungatissime a valle. L’architettura archiacuta si adatta benissimo alle irregolarità del terreno perché è fatta per la difesa militare”. Ritorna, come quasi un refrain, il concetto di “città naturale”, la cui struttura riflette comunque l’intervento umano e lo spazio è “un riflesso di una situazione di perfetta rispondenza tra forma e funzione” . Per tutto il Trecento da parte del Comune ci fu un continuo interesse a dotare la città di infrastrutture degne di un’importante centro politico ed economico quale fu Siena in quegli anni. Non è un caso che tra i problemi che impegnarono maggiormente le autorità vi furono quello delle strade e quello delle fonti di captazione delle acque. Già nel 1218 il podestà aveva intrapreso un’opera di risistemazione delle strade e delle piazze e già nel 1226 esisteva una commissione di tre responsabili delle strade, evidenziando una pianificazione organica delle problematiche infrastrutturali risalente al primo medioevo. Il governo di Siena si assunse, infatti, il compito di curare la funzionalità dei punti di approvvigionamento idrico, elargendo somme di denaro per chiunque si adoperasse a scavare dei pozzi o, in caso di necessità estrema, requisendo alcune vasche e fonti da destinare solo alla lavorazione della lana, come avvenne nel 1262, quando si temeva una diminuzione di competitività dell’industria laniera senese a favore di quella fiorentina. La macchina burocratica era assolutamente attenta affinché tutto fosse svolto, come si diceva, “per honore et utile della città di Siena”, denotando una forte partecipazione comunitaria alla cosa pubblica, alimentando il senso patriottico. Soprattutto per la gestione delle acque si adottarono metodi assolutamente scrupolosi affinché non vi fosse danno o spreco alcuno del prezioso “tesoro” così faticosamente cercato. La stessa struttura architettonica tipica delle fonti rispecchiava questo profondo rispetto per l’acqua, di cui se ne evitava con studiati accorgimenti tecnici lo spreco, raccogliendo, incanalando e facendo sgorgare, magari per trabocco, in un’altra fonte, quella in eccedenza, “acciò che non si perda ma in utilità di comune ritorni”. Così vediamo che spesso gran parte delle fonti sono costituite da tre vasche, che accoglievano le acque a seconda dell’utilizzo che se ne faceva. Nella prima, la più grande e spesso dotata di volte per proteggerla dalla pioggia e dal vento, veniva raccolta l'”acqua nova”, per usi alimentari; la seconda, che si alimentava dal “supero” della prima, serviva, essendo meno pulita, come abbeveratoio per gli animali; nella terza, collocata più in basso, si potevano lavare i panni, senza rischiare di sporcare le altre. Il trabocco finale, poi, veniva utilizzato per scopi artigianali (ad esempio per lubrificare le mole delle arrotini) o per innaffiare i campi circostanti. Il Bargagli Petrucci ci informa inoltre di un vano, “una pila murata accanto e fuori dalla fonte”, chiamato “trogo” dove veniva effettuata l’operazione della lavatura degli orci, dato che era severamente vietato attingere acqua con recipienti non puliti. Infine si parla anche di “guazzatoio”, una sorta di bagno pubblico, ma di cui però non possiamo essere certi dato che non sono rimaste tracce evidenti. Di sicuro, però, è che, sempre più spesso, si incominciò a costruire sopra le volte delle merlature, rendendo di fatto le fonti delle vere e proprie fortificazioni avanzate, chiamate “bicocche”, spesso fuori dalle mura, anche se via via inglobate nel tessuto cittadino, come abbiamo visto, con l’ampliamento delle cinte murarie. Furono dunque dotate di guarnigioni militari, permanenti o meno, con lo scopo di difenderle dai nemici, che, una volta distrutta la fonte e tolta l’acqua alla città, avrebbero messo facilmente in ginocchio la popolazione senese. Accadde, infatti, che nel 1554, durante l’assedio di Siena da parte dei Fiorentini, l’ingegnere militare di Cosimo de’ Medici, Giovan Battista Belluzzi, elaborasse proprio una mappa delle fortificazioni e dei bottini Senesi, per studiarne il loro sabotaggio, o forse per avvelenare l’acqua e prendere la città per sete.
Vi erano anche dei custodi, per così dire “civili”, pagati dal Comune, che avevano il compito di attendere a tutti quei lavori di manutenzione necessari al corretto funzionamento della fonte e del suo bottino di alimentazione, salvaguardandone l’uso e impedendo a chiunque di manometterne la funzionalità. Non ci dimentichiamo infatti che l’acqua, tra l’altro, serviva a spegnere gli incendi, che all’epoca erano tutt’altro che rari: abbondanza di legno nelle costruzioni, case fittissime, un gran numero di fornaci “coppariorum, pignattariorum et orciolariorum”, che accendevano enormi bracieri, erano situazioni ideali per il divampare di incedi distruttivi. E quando non erano casuali, erano dolosi, frutto di rivalità intestine. Poter contare su una riserva copiosa d’acqua era fondamentale per limitare i danni e impedire al fuoco di distruggere intere parti di città. Molto spesso, negli appelli dei cittadini di dotare d’acqua i propri rioni, si fa riferimento quale motivazione a questa doppia necessità: “per la vita delli huomini e persone d’esse contrade” e per ovviare al “difecto del fuocho, il quale Idio cessi”. Era proprio attingendo alle fonti che “i maestri di pietra e di legname” (di fatto il corpo dei pompieri dell’epoca) riuscivano ad intervenire per spengere gli incendi, lanciando dei coppi di terracotta come vere e proprie “bombe d’acqua”, da scagliare in mezzo alle fiamme. Si cercò, dunque, di costruire una fonte almeno in ogni contrada, con giustizia distributiva, non tanto perché tutti i cittadini potessero aver presso le loro case di che dissetarsi, quanto perché ogni contrada potesse avere la sua “bocca da incendio”. Il governo senese sentì pressante la responsabilità dell’amministrazione delle acque, e la considerò sempre prerogativa della funzione pubblica: emano’ una serie di leggi volte al corretto uso delle fonti e, quando fu reso necessario, non esitò a comminare pene severe per chiunque avesse attentato alla salute dei cittadini, inquinando con ogni genere di “sozzura” le acque o deviandone il corso in pozzi privati. E quando la colpa risultava particolarmente grave, come quando una donna (“una strega”- si pensò-) tentò di avvelenare le acque di Fontebranda, non si indugiò a assoldare quattro “ribaldi” che prima la scorticarono viva e in seguito dettero il corpo alle fiamme. All’epoca attentare al bene della comunità era un delitto tale da giustificare una simile crudeltà. Del resto, come ci ricorda il Balestracci, “quando un senese aveva cercato di aprire le porte della città ai nemici non era forse stato squartato e il suo corpo a pezzi inchiodato su quelle porte che aveva voluto tradire”?
Per fortuna però, più spesso, per reati meno gravi, si prevedevano solo delle sanzioni amministrative, talvolta, a dire il vero anche salate. La serie dei reati era lunga: si puniva chi si avvicinava nottetempo “a meno di dieci braccia dalle fonti”, chi vi gettava “canape, calcinacci, pelo” o qualunque altro tipo di “immondizie nocive alla salute”, chi vi faceva abbeverare animali malati o chi aveva in mente di farvi un bagno. Il valore dell’acqua era troppo importante perché ognuno ne disponesse come volesse a scapito del resto della città. Le carestie ma soprattutto la peste del 1348 ne avevano ancor più sottolineato, se ce ne fosse stato bisogno, il valore, visto che, anche in mancanza di rigorose diagnosi mediche, ci si rese conto che delle buone condizioni igieniche avrebbero meglio difeso da simili flagelli. Così per esempio non ci volle molto a capire che gli sbocchi fognari dello Spedale di S. Maria della Scala, che riversavano in mezzo alla strada i rifiuti a pochi passi da fonte della Vetrice, fossero dannosi per la fonte stessa oppure che lavando i panni nell’acqua sporca questi “acquistavano quel che perdevano”.
E certo dotare di acqua anche le carceri, dove più facile era il proliferare delle epidemie, risultò essere un dovere civile, costruendovi un pozzo che tuttavia si seccò rapidamente. E di certo, ci si rendeva ben conto che il proliferare delle malattie e delle infezioni era conseguenza di una mancanza di riserve idriche, se si diffuse la leggenda che il vasto rione di Fontebranda, dove appunto si beveva l’acqua migliore, fosse stato risparmiato dalla Grande Peste del 1348. Dunque se l’uso dell’acqua appare, ormai evidentemente, fondamentale per lo sviluppo delle attività dell’uomo, ieri, come oggi, non stupisce che a Siena si possano contare più di cinquanta Fonti, tra monumentali e cosiddette minori, e una rete sotterranea di alimentazione delle stesse (di cui parleremo in seguito) lunga ben 25 Km. Ci è impossibile citarne tutte e di tutte raccontarne la storia, che, per qualcuna di esse, si fonde anche con la leggenda e le tradizioni popolari. Per una visione d’insieme rimandiamo al bel libro di V. Serino, Siena e l’acqua: storia e immagini della città e delle sue fonti. Noi qui ne mostreremo una “carrelata”, certo incompleta, ma sufficiente per apprezzarne la raffinatezza artistica e l’impeccabile funzionalità, individuandone l’ubicazione che ha dotato Siena di una rete idrica efficiente e capillare.

Fonte Gaia

Prima fra tutte citeremo Fonte Gaia. Questo perché portare l’acqua nel centro della città fu veramente un capolavoro di ingegneria idraulica medievale. Quando l’acqua arrivò in Piazza del Campo il 1 Giugno 1343, come racconta l’antico cronista Agnolo di Tura detto il Grasso: “…fu tanta festa e l’allegrezza, che a volerla tutta contare, verrebbe meno la lingua”. Il progetto per la sua costruzione era stato stilato nel 1334 da Giacomo di Vanni e prevedeva che essa fosse alimentata dalle acque di Fonterutoli, che giungevano in città attraverso un rudimentale “bottino a pelo libero”; nel 1340 Lando di Pietro, Agostino di Giovanni ed altri ebbero l’incarico di ampliare il condotto, in relazione alle aumentate esigenze della popolazione. E portare l’acqua in Piazza del Campo provocò una tale esultanza nel popolo da giustificare pienamente il nome di “gaia” che da quei lontani giorni venne imposto alla fonte.

Immagine20La struttura venne completamente rifatta negli anni 1412-1419 da Jacopo della Quercia, Francesco di Valdambrino, Sano di Matteo in mirabili forme, ad un tempo potenti ed eleganti. I resti di questa fonte, in condizioni di fatiscienza, furono trasferiti nella loggia del Palazzo Pubblico e sostituiti con una riproduzione, eseguita negli anni 1858-1869, dallo scultore Tito Sarrocchi. Oggi ciò che rimane della Fonte di Iacopo della Quercia è custodito nei locali del Museo Archeologico presso i locali del Santa Maria della Scala.

Fonte del Casato

A due passi dal Campo, alimentata dallo stesso bottino di Fonte Gaia, sorge la piccola Fonte del Casato, voluta dal popolo della zona e costruita dal 1352 al 1360. Tuttavia a causa della scomodità degli scalini che conducono alla vasca, fu sempre poco utilizzata, soprattutto come abbeveratoio degli animali. Fu addirittura murata e riaperta solo negli anni ’70. Entrambe le fonti sono collocate in luoghi a circa 300 m s.l.m. dove era più difficile portare l’acqua per caduta: tutte le altre, infatti, sono collocate più in basso.

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Fonte Becci

FonteBeccisA nord, verso Firenze, alimentata dal cosiddetto “bottino maestro” di Fonte Gaia, si trova la Fonte Becci, di cui oggi si notano tracce evidenti nella località omonima. Questa fonte è tra le più antiche in assoluto (citata per la prima volta in un atto di donazione del 1110), e forse addirittura di origine romana. All’origine del suo nome sono legate varie leggende: le due più conosciute sono quella che racconta che vi si svolgevano sacrifici di montoni (volgarmente “becchi”) al dio Bacco e l’altra che farebbe risalire “Becci” allo scambio che vi fu in quella località tra i prigionieri fiorentini, catturati nella battaglia di Montaperti, con i montoni chiesti in cambio. Alcune antiche cronache raccontano che con il sangue di questi “becchi”, a ricordo imperituro dell’episodio, vi sarebbe stata impastata la calcina con cui la Fonte era stata intonacata. Oggi alcuni ritengono invece che “Fonte Becci” sia semplicemente una deformazione popolare di “Fonte per berci”, cioè per dissetarsi.

Fonte Nuova d’Ovile

Dentro le mura, incontriamo a pochi passi la splendida Fonte Nuova d’Ovile, che è opera del secolo XIV e ne rivela pienamente i valori artistici. Essa è un capolavoro dell’architettura trecentesca senese ed è diversa dalle altre per la particolare eleganza delle linee e per la vivacità del colore dei mattoni. Di un progetto per la sua costruzione si occupò nel 1295, insieme ad altri, anche Duccio di Buoninsegna. L’opera fu iniziata nel 1298 e, secondo alcuni storici, fu terminata nel 1303 circa. Sembra che la costruzione di questa fonte sia stata finanziata con i proventi che la Repubblica traeva dallo sfruttamento delle miniere d’argento di Montieri. Inizialmente aveva un unico bacino ma nell’Ottocento fu diviso e fu costruito il lavatoio. E’ stata da poco restaurata con mattoni, tecniche e strumenti antichi (come l’uso del “cocciopesto”, cioè calce e laterizio tritato, per l’impermeabilizzazione del bacino).

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Fonti di Pescaia

Bellissima ed antica è anche la esterna Fonte di Pescaia, che prende il nome dal vicino torrente Pescaia, forse così chiamato perché un tempo alimentava i tomboli dove si tenevano dei vivai di pesce. La fonte, nella quale si scorgono le primitive linee medievali, già nel 1226 risultava tra quelle molto ben custodite: c’è infatti ancora traccia della merlatura della fortificazione sopraffatta dalla costruzione ottocentesca dove per decenni hanno abitato tutti gli “sfrattati” della città. Una lapide posta sulla facciata riporta la data del 1247, probabilmente relativa all’ultimazione di un successivo rifacimento.

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Fontebranda

Come Fonte Nuova e Fonte Gaia rappresentano mirabilmente i secoli XIV e XV in Siena, Fonte Branda ricorda il secolo XIII. E’ forse la più antica, ricordata nei documenti fin dal 1081, e secondo alcune ipotesi non molto attendibili, sarebbe stata costruita addirittura al tempo di Brenno re dei Galli. C’è notizia, nel 1193, di una nuova Fontebranda, completata con le volte nel 1246. La vecchia fonte, costruita più in alto verso la città, a causa di una diminuita portata d’acqua e della conseguente perdita d’importanza, fu distrutta nel 1247. Nel 1270 Fontebranda, al pari di altre fonti principali, veniva fortificata (con la merlatura) e dotata di un presidio militare. Nel 1296 fu aumentato il bacino alle dimensioni attuali, con tre volte. L’acqua del trabocco andava a rifluire nella vallata sottostante dove alimentava mulini, concerie e tintorie. Fino a pochi anni fa, al lato della fonte, c’era la piscina comunale, di dimensioni non regolamentari. Il bottino che procura l’acqua alla fonte è autonomo e, dopo quello di Fonte Gaia, è il più lungo, spingendosi fino alle zone di Acqua Calda e di Fontebecci. Persino Dante cita questa fonte nel canto XXX dell’Inferno della sua “Commedia” ed anche Boccaccio la ricorda nella sua opera.

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Fonte di Follonica

Tra le fonti maggiori si ricorda Fonte di Follonica. Essa figura tra quelle ricordate dai Libri di Biccherna nel 1226 e, anticamente, fu ricca di acqua e ben custodita: già nell’antichità ci si era resi conto della instabilità del terreno sottostante. Quando le cure cessarono in seguito alla peste del 1348, essa cominciò quel lento ma costante ed inesorabile sprofondamento nelle viscere del terreno. In tempi recenti è stata oggetto di restauro.

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